Un boulder è un grosso scoglio solitario che si può avvistare nei mari del Sud, a largo della Patagonia, è una roccia solitaria, un isolato residuo delle regole della geologia. Boulder è il nome della protagonista del secondo romanzo di Eva Baltasar, o meglio è il soprannome che ha scelto per lei Samsa, la donna di cui si è perdutamente innamorata, la prima che è riuscita a smussare gli spigoli della sua pietrosità e a minare la fortezza della sua solitudine.

Boulder lavora stipata nella cambusa di una nave cargo, tutti pensano che sia la pecora nera di una famiglia ricca, che la sua sia una capricciosa vendetta ma, invece, è lo spazio limitato, il lavoro fisico e la precarietà che danno senso alla sua vita. «Posso rinunciare a qualsiasi cosa perché di decisivo non c’è nulla se ti rifiuti di rinchiudere la tua esistenza nella gabbia delle narrazioni» dice Boulder, voce narrante in prima persona.

Sarà l’amore per Samsa a cambiare tutto, a sovvertire le priorità. Salperà definitivamente Boulder, per cambiare Paese, cambiare lavoro, mettere i piedi sulla terraferma e mettere su casa e famiglia.

E infatti succede, Samsa ora vuole un figlio. «Arriva a casa come un ospite letale. Inatteso e infausto. La malattia che colpiva solo gli altri.» E Boulder non può rifiutarsi, farà tacere i suoi tentennamenti e terrà a bada la sua natura, è per amore che accetterà di accompagnare la sua compagna in una clinica di riproduzione assistita pur sapendo che da quel momento in poi sarà inesorabile l’esilio. E così il vortice della maternità si aziona, ha inizio «la guerra chimica» e il corpo di Samsa diventa il campo di battaglia: prelievi innumerevoli come innumerevoli sono le pasticche e le vitamine ingurgitate, e poi gli estrogeni, il grasso iniettato nell’addome e i miracolosi ormoni, semplici da ingerire come caramelle.

La persecuzione dell’una si scontra con la rinascita dell’altra. Se Boulder ritorna a pungere spigolosa, Samsa risplende, genera luce, «ha lo sguardo vellutato dei leoni adulti che sanno di essere il centro della trascendenza.» Perché la maternità è spesso esclusiva, è onnipotente, sa essere feroce; una madre è come un’antica strega che conosce il segreto della vita e una donna incinta è una regina che si ossequia mantenendo la giusta distanza.

Ed è proprio sulla distanza, sull’inaccessibilità che la maternità può generare che si interroga Eva Baltasar nel suo ultimo libro. Non si esprime alcun giudizio, è la storia di una coppia, non ha ambizioni universali il libro però insinua il dubbio: contravvenendo alle regole culturali, sociali, morali che spesso attanagliano solo le donne, è lecito chiedersi se avere un figlio sia sempre e comunque un progetto costruttivo per una coppia? È davvero così orribile almeno interrogarsi su quanto possa invece allontanare ed essere devastante?

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